Mancanza di competenze nelle Asl, adeguamento delle strutture e digital illiteracy: sono queste le grandi sfide della sanità di fronte alla trasformazione digitale e che andranno necessariamente vinte per adempiere alla Missione salute del Pnrr, come evidenzia il 36mo Rapporto Italia dell’Eurispes.
L’impatto dei 15,5 miliardi previsti dal Pnrr per la sanità digitale, per riformare entro il 2026 il Servizio sanitario nazionale con l’innovazione della telemedicina, il completamento del Fascicolo sanitario elettronico e la digitalizzazione dei processi per arrivare ad una sanità davvero digitale, “presenta ancora diverse sfide da affrontare”, si legge nel report.
Sanità digitale: tre ostacoli lungo la Missione salute del Pnrr
La prima sfida riguarda la mancanza di competenze digitali all’interno delle organizzazioni sanitarie, che posiziona l’Italia al diciottesimo posto fra i 27 Stati membri dell’Ue (Desi, 2022).
La seconda, prosegue il report – è l’adeguamento delle strutture e dei servizi sanitari ai nuovi modelli e standard previsti dal decreto ministeriale 77 del 2022, inclusa la definizione dei criteri di accesso, erogazione e remunerazione delle prestazioni di telemedicina.
Un’ulteriore barriera è la ‘digital illiteracy’, poiché la telemedicina si è focalizzata principalmente sui dispositivi tecnologici e non sulla formazione del personale. Questo è ulteriormente aggravato dalla mancanza di una connettività veloce e uniforme su tutto il territorio nazionale”.
Il Rapporto evidenzia anche tre macro-aspetti nel sistema sanitario nazionale che necessitano di essere riformati. Innanzitutto, lunghe liste d’attesa e debolezze strutturali a livello territoriale: gli eccessivi tempi di attesa, come ha evidenziato il report dell’Aiop 2024, rappresentano uno degli elementi di maggiore iniquità nell’ambito del sistema sanitario. C’è poi il fenomeno della migrazione sanitaria: nel 2021 ha raggiunto 4,24 miliardi, cifra nettamente superiore a quella del 2020 (3,33 miliardi).
La carenza di personale e la mancanza di turnover sono il terzo aspetto che preoccupa: il 10% delle posizioni di medico di base rimane non occupato, situazione aggravata dal fatto che si prevede un significativo aumento dei pensionamenti.
Carenza di competenze digitali, questione italiana
In fatto di competenze, non è solo la sanità a restare indietro: la carenza di competenze digitali, di base e specialistica, rilevata dal Desi ancora nel 2023 per la popolazione italiana, costituisce un persistente fattore di ritardo nella trasformazione digitale. Infatti, più della metà delle persone nel nostro Paese non ha nemmeno le competenze digitali di base, il che rende molto difficile per loro beneficiare delle opportunità digitali ed esercitare i diritti di cittadinanza.
Il divario rispetto alla media europea si riduce per le competenze digitali superiori a quelle di base, ma torna ad alzarsi con riferimento alle competenze specialistiche e con riferimento ai laureati Ict. Inoltre, solo il 33,9% degli italiani ha una vaga idea di che cosa sia l’intelligenza artificiale e una quota simile afferma di non saperne nulla (31,9%).
Il Desi registra per il 2023 un livello medio di digitalizzazione dei servizi pubblici pari al 77% in Ue e per l’Italia poco meno del 68%. Nel 2022 la Pubblica amministrazione italiana ha comunque speso oltre 7 miliardi di euro in Ict (+5,8% rispetto al 2021) per spingere la sua digitalizzazione e, secondo le stime, la spesa continuerà a crescere nel prossimo triennio, anche grazie ai fondi del Pnrr.
In merito ai nuovi paradigmi del lavoro digitale, meno di un decimo degli italiani (9,1%) lavora interamente da remoto in una località diversa da quella dove ha sede la sua azienda e un 38,3% conosce persone che lo fanno, rileva Eurispes. Il nomadismo digitale (riferito a chi abbandona il tradizionale luogo fisico del lavoro per vivere una vita senza vincoli e con maggiore libertà, spesso spostandosi da un paese all’altro) è una realtà ancora più limitata.
Occupazione: le imprese innovative spingono la crescita
Quasi la metà dei lavoratori italiani (47,3%) ha valutato, più o meno concretamente, l’eventualità di un trasferimento lavorativo in un paese straniero. Sono soprattutto i laureati ad aver considerato l’ipotesi di lasciare l’Italia per lavorare fuori dal Paese (55,2%). La spinta a considerare di lavorare all’estero è la possibilità di ottenere migliori condizioni economiche (28,2%). Seguono: conseguire più sicurezza e stabilità lavorativa (17,8%), avere più possibilità di trovare lavoro (17,5%).
Sul fronte occupazione, il Rapporto di Eurispes evidenzia anche che in Italia le startup innovative e ad alta tecnologia rappresentano il più importante driver di crescita occupazionale della nostra economia. Nel terzo trimestre del 2022, si sono registrate 14.708 imprese attive con un valore medio di produzione di circa 211mila euro, in aumento rispetto al trimestre precedente (dati Infocamere-Unioncamere). Crescono soprattutto le imprese dei settori “conoscenza e tecnologia”, “infrastrutture” e “creativity output”, che riflette la capacità creativa e innovativa del Made in Italy.
Il Governo italiano ha introdotto l’Italian startup act (Isa) per fornire incentivi e supporto a queste imprese in tutte le fasi del loro ciclo di vita e gli effetti sembrano arrivare: secondo il Global innovation index del 2023, l’Italia guadagna due posti nella classifica dei Paesi con imprese più innovative collocandosi al ventiseiesimo posto.
Secondo una ricerca della Rome business school, le startup innovative in Italia sono passate da 14.708 nel 2022 a una previsione di 16.256 nel 2023. Dal 2013 al 2023, si è registrata una crescita cumulata pari al 981,6% e una crescita percentuale media del 26,88%. Inoltre, nel 2013 il 67,5% delle startup ha un valore della produzione inferiore a 100mila euro, mentre nel 2022 questa percentuale scende al 27%.
Startup e open innovation per la competitività dell’Italia nell’Ai
Sul ruolo delle startup nell’ecosistema italiano è intervenuto anche Marco Gay, presidente esecutivo di Zest, durante il Festival dell’economia di Trento all’interno del panel su: “Intelligenza artificiale: il ruolo delle big tech”. Gay ha affermato che gli investimenti nelle startup, assieme allo sviluppo tecnologico costante garantito dai progetti di open innovation, sono centrali ella competizione globale sull’Ai.
“Questo consente alle startup di crescere e competere e, contemporaneamente, di validare i loro modelli su larga scala, grazie alle infrastrutture tecnologiche condivise dalle big tech”, ha detto Gay. Anche l’Europa è in gara: “Abbiamo visto in questi giorni come, in Francia, le big tech proseguano, da un lato, nella strategia di investimento in startup di intelligenza artificiale generativa e, dall’altro, abbiano annunciato ulteriori, importanti investimenti per lo sviluppo dell’ecosistema startup e delle competenze. Questo ci impone una riflessione sul ruolo che il nostro Paese e il nostro tessuto imprenditoriale vogliono giocare all’interno di questa vera e propria rivoluzione industriale. Gli investimenti in startup e l’open innovation sono la chiave per competere su questo terreno. Come Zest, grazie alle caratteristiche uniche del nostro ecosistema, al primo programma di accelerazione dedicato allo sviluppo delle startup di intelligenza artificiale nel nostro Paese e a competenze specifiche di open innovation e corporate venturing, vogliamo essere il principale abilitatore per l’innovazione Ai delle imprese italiane”.
Testo: Patrizia Licata